UOMINI IN PIGIAMA

Ogni mercoledì mattina sono di turno alla Reception, tra gente che mi passa davanti, a volte senza neppure vedermi.

Ho imparato a non farci caso e a considerare quel dolore, crudele e personale che si porta dentro. Del resto, questo non è un albergo a cinque stelle ma un Hospice per malati terminali e io sono una volontaria che accoglie, come può, la sofferenza, manifesta o trattenuta, che si consuma dentro le pareti di una stanza, contrassegnata dal nome di un fiore. I numeri infatti sono stati banditi, considerati troppo aridi per le emozioni che vi abitano. Il fiore appare anche sulle pareti interne, in dipinti di autori con stile e tecnica differenti, per sottolineare come un semplice soggetto possa mostrare sfumature e angolazioni personali. Una sottile analogia con la malattia e la morte, vissute in questo luogo, secondo la persona che oltrepassa quella porta, portandosi dietro culture, fedi ed esperienze che le appartengono. C'è chi quella porta la tiene sempre chiusa e lascia entrare solo medici e infermieri… C'è invece chi la tiene socchiusa e la fessura permette incontri e relazioni di breve durata - tanto è l'alternarsi degli ospiti - ma talmente intensi da superare l'inevitabile trapasso.

Il dolore qui è attuale, devi parlarne sempre al presente; alberga nelle persone come nelle stanze, coinvolge tutti e ognuno fa la propria parte perché possa essere alleviato il più possibile.

Più che di dolore fisico, controllato da farmaci di nuova generazione, è presente una sofferenza profonda, intima e dilaniante, a volte mascherata da silenzi, a volte espressa da pianti dirotti. Ed è a questa sofferenza che non riesco ad abituarmi: mi penetra dentro, ponendomi una serie di domande a cui non so rispondere. Non posso permettermi di piangere, però: non c'è peggior cosa che leggere la compassione sul viso di estranei non autorizzati a farlo, anche se la mia è reale e cristiana "com-partecipazione". A volte sono certi silenzi a rendere impenetrabile l'atmosfera ed è allora che occorre muoversi e agire senza visibilità, e supportare tacitamente le inevitabili lacerazioni interiori. Qui, dove la sensibilità è palpabile, è più facile intuire i valori della vita e valutare se la fede è vera o se è solo un rifugio in cui confinare le arcaiche paure sul finire di un'esistenza.

Qui sai che tutto si compie e ricomincia: per chi lascia, una nuova vita in un'altra dimensione e per chi rimane un equilibrio psicologico da ristabilire con difficoltà. Perché il lutto va accolto, pur nel rifiuto iniziale, va affrontato con dignità, rielaborato nel profondo per far spazio a una rinascita consapevole che può divenire anche ricchezza. Qui, dove sembra che la morte abbia la meglio, in realtà è la vita la protagonista, la vita terminale, gli ultimi istanti, preziosi e indimenticabili, quelli che rimangono negli occhi di chi se ne va e nella mente di chi lo accompagna.

Io sono qui, come fossi una dipendente a cui è richiesta professionalità, invece sono una volontaria con una "divisa" e una "maschera sul volto", per sorridere senza eccessi, misurare parole, atteggiamenti e centimetri di tacco. A volte mi sento un manichino, statico e muto, inespressivo soprattutto, su cui far scivolare il dolore che vedo, sento e percepisco sulla pelle e nell'anima.

Entrando in questo luogo non vi è la speranza di una guarigione, ma la necessità di un'assistenza continua che contempli la cura della persona nel suo insieme. Qui la speranza ha differenti sfaccettature perché è anche preparazione consapevole alla dipartita e al distacco dagli affetti più cari, che nel momento del congedo, diventano più intensi, colmando vuoti del passato, tra parole taciute o dette malamente... La speranza è anche elaborazione anticipata degli avvenimenti per un distacco che non sia separazione definitiva ma temporanea. Il "dopo" è un mesto scenario al rallentatore per riordinare la camera, liberandola da oggetti personali e far spazio ad altri "addii in lista d'attesa", mentre il presente diventa passato prossimo e la realtà diventa ricordo. Il "tutto" si è compiuto, quel "tutto" che è una vita, fatta di gioie e di dolori, di bene e di male… Una vita vissuta come un valore da preservare e un' opportunità da cogliere per accedere poi nel luogo indefinito, senza tempo né spazio. Qui i muri sono divenuti custodi di tanti segreti trattenuti o svelati, accolti o negati e potrebbero raccontare l'intensità degli affetti o la dolcezza degli ultimi palpiti. Qui il dolore è stato protetto dallo squallore di certe solitudini e sottratto ad asettici reparti di ospedali dove si guarisce ma non si muore, perché non si può morire in camere a più letti con porte spalancate sui corridoi dell'andirivieni. Ma ecco che tornano i fiori e abbelliscono idealmente questo luogo di grande decoro, portano luce e colori… La Camelia, il Lilium, il Tulipano con i loro profumi immaginari, percepiti nell'animo più che nelle narici, inebriano la stanza degli addii.

In questo alternarsi di vita e morte, non so mai chi rivedrò il mercoledì successivo, quando riprendo il turno settimanale. Non so se il signore anziano dell'Iris, pigiama azzurro a righe bianche, verrà a salutarmi, trascinando la flebo con l'ago inserito nel braccio destro, quello che ancora regge le infusioni… O se il giovanotto in tuta grigia e blu, riuscirà, con i muscoli indeboliti dalla malattia, a spingere la sua carrozzina fino alla Reception per parlare della sua squadra preferita…. Sembrano tutti uguali i pazienti in pigiama, tutti simili nella loro andatura lenta e sofferta, tra pantaloni svolazzanti e giacche enormi che nascondono postumi di interventi demolitori e conseguenti magrezze.

Solo le signore in camicia da notte osano qualche trasparenza e diversificano, con romantici pizzi, i corpini svuotati di piacente femminilità… Rosa, Ida, Arianna, Marisa, giovani e meno giovani, sono tutte passate di qui un giorno e sono entrate anche nella mia vita con una parte di loro.

Ad Arianna, trentanove anni e una bimba di dieci, ho portato un gelato al limone, come aveva espresso in un ultimo desiderio. L'ha gustato consapevole che se ne sarebbe andata con quel sapore in bocca, legato forse ad un dolce ricordo. Tra pigiami, camicie da notte e tute di "moderna generazione" emergono sorprendenti storie personali; riemergono dal passato remoto per ridare unicità alla persona in una ritrovata identità. E' in quel momento che la mente ripercorre le tappe di una vita da protagonista, togliendo con uno strappo la veste da camera che imprigiona i corpi consumati dalla malattia. Il narrare riporta il paziente alla condizione di uomo nella sua singolarità, restituendogli il ruolo avuto nella società e nella famiglia, mentre episodi e nomi si susseguono e tra il vitreo opacizzato appare cristallina una lacrima.

A volte il racconto prende l'irruenza di in fiume in piena e non rimane che stare in silenzio mentre il narrare diventa l'ultimo atto d'amore per la vita e l'ascolto un'esperienza da accogliere come arricchimento. Qualcuno va addirittura oltre e si mette a cantare, come Giacomo, apprezzato tenore che mi salutava sulle note della Turandot … "Nella tua fredda stanza, guardi le stelle che tremano d'amore e di speranza. Ma il mio mistero è chiuso in me, il nome mio nessun saprà!…. Tramontate stelle, all'alba vincerò, vincerò…" Un estremo tentativo di riappropriarsi di se stesso, tra tanti pigiami tutti eguali, dove solo i colori facevano ancora la differenza.

STANZA 12: Gli Iris

STANZA 12: Gli Iris